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Su Balcani, Iran e crisi palestinese l'Europa non è poi tanto divisia

02 April 2003

E' possibile, e opportuno, parlare gia' del dopo-Saddam? Sull'assetto che potra' essere dato al paese e alla sua amministrazione pesano ancora troppo le incognite militari del conflitto vero e proprio e le animosita' politico-diplomatiche delle settimane scorse. Ma la pur lunga crisi irachena non sara' sempre il solo fattore determinante delle relazioni transatlantiche ne' l'elemento principale di divisione all'interno dell'Unione Europea. Soprattutto, e' possibile impedire che lo resti - ma solo se se ne traggono le lezioni giuste.
Del resto - paradossalmente, ma non troppo - su certi dossiers l'Europa divisa di queste settimane sembra invece procedere di buon accordo. E' il caso delle prime missioni di pace condotte dall'Unione, lanciate nelle scorse settimane prima in Bosnia (rilevando l'operazione di polizia gestita dall'Onu) poi, proprio in questi giorni, in Macedonia, dove un piccolo contingente militare multinazionale a guida francese ha rilevato i compiti della forza Nato sul posto, collaborando fra l'altro con l'Alleanza nella pianificazione e gestione dell'operazione. Sui Balcani, piu' in generale, esiste un'apparente consenso transatlantico - sui principi da far rispettare come sui mezzi da usare, inclusa una certa "devoluzione" di compiti dalla Nato all'Ue - che dovrebbe sopravvivere al dissenso sul Golfo.
E' il caso anche di altri due dossiers collegati alla crisi irachena, dal "percorso" per il processo di pace in Medio Oriente al "dialogo costruttivo" con l'Iran. Su entrambi c'e' tuttora un accordo sostanziale fra i Quindici (britannici compresi) che non dovrebbe essere intaccato dal conflitto in Iraq - salvo suoi imprevisti e ben poco auspicabili allargamenti - e che, anzi, potrebbe favorire un certo ricompattamento europeo anche rispetto a Washington.
C'e' tuttavia un punto su cui un po' tutti i membri (attuali e futuri) dell'Unione devono chiarirsi le idee e discutere, senza aspettare l'irruzione di un'altra crisi: con l'Iran, appunto, con la Siria, o con la stessa Libia. Riguarda la questione della non-proliferazione delle armi di distruzione di massa, ovvero della contro-proliferazione. Fino ad oggi l'Europa - comprese le sue due potenze nucleari, Francia e Gran Bretagna - si e' prevalentemente affidata al multilateralismo, cioe' a regimi e codici di condotta (per l'export), convenzioni e trattati di interdizione o limitazione di tali armi. Visti in prospettiva storica, questi accordi sono stati un inatteso successo e, allo stesso tempo, un inevitabile fallimento. Ancora 50 anni fa, infatti, si prevedeva che nel 2000 le potenze nucleari sarebbero state 30 o 40; in realta', sono decisamente di meno, ma sono anche aumentate. La non-proliferazione ha funzionato in America Latina, e la contro-proliferazione ha funzionato col Sudafrica. In altri casi non e' stato cosi', e gli sforzi per rintracciare i materiali fissili sono stati timidi e sporadici, anche per evidenti limiti politici e di taglia: si pensi alla Cina o al subcontinente indiano. Il caso della Corea del Nord, poi, e' sotto gli occhi di tutti. Sarebbe d'altra parte poco saggio non diffenziare fra i proliferatori (reali e potenziali): ci sono casi in cui la percezione della propria sicurezza territoriale gioca un ruolo determinante - l'Iran, stretto fra Stati arabi ostili e Israele - e in cui e' opportuno affrontare il problema in modo piu' articolato, ed altri invece in cui e' opportuno un approccio piu' severo e dissuasivo.
Nel caso delle armi chimiche e soprattutto biologiche, inoltre, gli arsenali sono ormai facili da acquisire e anche da dissimulare, tanto che anche gruppi terroristici e organizzazioni non-statali possono arrivare a disporne, sia pure in quantita' limitate. A cio' si aggiunga che i tabu' che ne hanno a lungo impedito l'impiego appaiono in via di erosione, dal Giappone dell'attentato della setta Aoun alla Florida delle lettere all'antrace. In questo settore, non-proliferazione e contro-proliferazione richiedono dunque una piu' stretta ed estesa cooperazione internazionale - si tratta soprattutto di sorvegliare i cervelli - e non possono essere condotte efficamente ne' in chiave unilaterale ne' con la semplice stipula di accordi internazionali privi di seri meccanismi di verifica.
Il solo modo, oggi, per (ri)dare credibilita' all'approccio multilaterale favorito dagli europei e' promuovere regimi ispettivi e sanzionatori piu' decisi e rapidi, uniti ad una certa misura di dissuasione e coercizione. Non e' forse questa una delle lezioni della crisi irachena? Il vero rilievo da fare alla Francia per la sua condotta all'Onu, infatti, e' quello di aver presentato proposte specifiche - con scadenze precise e parametri concreti per gli ispettori - solo quando gli americani avevano ormai deciso di far saltare il tavolo, piuttosto che settimane (o mesi) prima. Sara' possibile, dopo Saddam, ripartire da quel catalogo ed applicarlo altrove, impedendo cosi' che l'azione militare unilaterale possa presentarsi come il solo modo per dissuadere i proliferatori?