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Il poker di problemi che tormenterà la nuova Europa

20 January 2004

Il Medio Oriente, il ruolo della Russia, le minoranze etniche oltre confine e i Balcani. Un'agenda per la Pesc che verrà.
L'allargamento progressivo della Comunità prima e dell'Unione Europea poi è stato un grande successo economico e politico. Ma è stato anche un'efficacissima politica estera e di sicurezza comune, ben prima che la cosiddetta Pesc venisse inserita nei trattati. Una Pesc con altri mezzi, per così dire, ma una Pesc in senso proprio. Con altri mezzi, perché aver esteso via via ai nuovi paesi membri le norme e gli istituti, i vincoli e le opportunità connessi alla membership ha ridotto l'instabilità e le possibili fonti di conflitto sul continente europeo. Una Pesc in senso proprio perché i nuovi membri hanno portato nella Comunità/Unione interessi, contatti e knowhow che hanno ampliato la portata delle politiche comuni esistenti, e rafforzato l'Europa come attore internazionale.
E' stato così con il primo allargamento, nel 1973, a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca; con l'allargamento a Sud degli anni Ottanta; con la stessa unificazione tedesca; e perfino con l'allargamento del 1995 a Svezia,Finlandia e Austria. Resta da vedere non tanto se, ma piuttosto come l'allargamento che entrerà in vigore il 1 maggio prossimo influenzerà il modo in cui l'Unione si proietta al proprio esterno.
E' apparso chiaro sia dai negoziati per l'adesione, conclusi nel 2002, sia dagli avvenimenti politici dello scorso anno, che il grosso dei nuovi partners (con l'eccezione di Malta e Cipro) ha una forte propensione filoamericana e pro-Nato - basti pensare agli schieramenti contrapposti intra-europei sull'Iraq - accoppiata ad un'altrettanto forte attenzione per Mosca. Un'attenzione fatta però soprattutto di diffidenza, per evidenti ragioni storicopolitiche, e anche di interessi regionali e bilaterali molto concreti. Si pensi alle controversie passate sull'enclave di Kaliningrad, alle questioni legate all'approvvigionamento energetico dei paesi baltici, alla gestione delle frontiere con Bielorussia e Ucraina, al problema della Moldavia e, ora, anche alle tensioni nel Caucaso meridionale - tutti temi molto sentiti negli ex paesi "satelliti" dell'Urss e, allo stesso tempo, di rilievo strategico crescente anche per l'Unione nel suo complesso.
I nuovi partners mitteleuropei tendono a vedere la Russia più come una potenziale minaccia, sia pure residuale, che come un interlocutore politico affidabile: in questo, si schiereranno più probabilmente con paesi come la Finlandia che con i paesi latini e mediterranei, che tendono invece a considerare Putin un partner e un potenziale alleato. E' però anche vero che l'Unione allargata rappresenta ormai il primo partner economico e commerciale della Russia, con oltre il 40 % degli scambi - seguita a distanza dalla Cina e, molto piu' lontano, dagli Stati Uniti (il che può contribuire a spiegare la condotta diplomatica di Mosca sull'Iraq e altri dossier) - e che quindi l'interdipendenza economica potrebbe finire per bilanciare la diffidenza politica.
Un secondo set di questioni che resteranno prioritarie per i nuovi partners riguarda la situazione delle minoranze etniche. Se all'interno dell'Unione il problema è in gran parte risolto dal sistema di Schengen e dalle solide tutele normative esistenti nei Trattati, diverso è il caso per le frontiere esterne: si pensi ai polacchi in Ucraina, agli ungheresi in Romania e Serbia, ai rumeni in Moldavia - ma anche ai russi in Estonia o Lettonia e, ovviamente, ai turchi a Cipro. I nuovi partners premeranno per un mix di permeabilità e severità lungo i confini comuni, e non è un caso che proprio la Polonia abbia di recente avanzato la propria candidatura per ospitare la futura agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne dell'Unione, che dovrebbe essere operativa dall'anno prossimo. Senza contare ovviamente i timori persistenti - soprattutto in Slovenia e Ungheria - per la situazione nei Balcani. La recente candidatura all'Ue della Croazia e quella, attesa a mesi, della Macedonia non faranno che accentuare infatti il senso di esclusione degli altri Stati della regione, che potrebbe a sua volta focalizzarsi sui due paesi ancora in bilico nell'area: la Bosnia- Erzegovina e il Kosovo.
Sul piano più strettamente strategico-militare, infine, i nuovi partners non avranno molto da offrire in termini di capacità. E' vero, soldati polacchi hanno combattuto in Iraq e hanno un ruolo-chiave in un'area del paese occupato, e quasi tutti i nuovi partners hanno partecipato alle operazioni di pace condotte dalla Nato (e l'anno scorso anche dall'Ue) nei Balcani. Le unità ceche specializzate in decontaminazione sono richiestissime, e un po' tutti i nuovi partners cercano di concentrare le scarse risorse di bilancio sulla modernizzazione e l'equipaggiamento di forze sempre più ridotte e professionalizzate. Ma sarebbe ardito sostenere che i 10 abbiano capacità e interessi strategici, diplomatici e commerciali - e perciò outreach e influenza - paragonabili a quelli di alcuni degli attuali membri, e non solo dei più grandi. In questo senso, pur nel rispetto formale della parità di diritti e di doveri fra tutti i futuri partners, appare inevitabile che una Pesc efficace debba prevedere - magari senza dirlo troppo apertamente - una leadership più ristretta, aperta tuttavia di volta in volta al contributo di tutti i paesi membri, vecchi e nuovi. Alla Convenzione e alla Conferenza Intergovernativa, i 10 nuovi partners erano sembrati molto preoccupati di prevenire ogni forma di esclusione, ma la parziale riscrittura di alcuni articoli della "costituzione", nelle ultime settimane della presidenza italiana, sembra averli rassicurati. Non è del resto su questo che, un mese fa, si era incagliata la Conferenza.