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Europa potenza civile

Che l'Unione europea non sia una potenza comparabile agli Stati Uniti risulta evidente dai fatti, a cominciare dal gap crescente - tecnologico e di bilancio - fra gli investimenti militari delle due sponde dell'Atlantico. Che neanche debba porsi l'obiettivo di emulare gli Stati Uniti è invece meno evidente. Gli ultimi mesi, mesi di preoccupante marginalità europea dalla gestione della sicurezza internazionale, sono serviti almeno a chiarire questo punto: come hanno dichiarato sia Chris Patten che Javier Solana, l'Europa sarà più utile sul piano globale non solo se si rafforzerà militarmente, il che è indispensabile. Ma anche se eserciterà con maggiore efficacia e coerenza un proprio ruolo specifico: non di superpotenza aspirante, ma di potenza civile.
Con il concetto di Europa come civilian power - definizione un tempo relegata in noiosi studi politologici - una scelta "filosofica", in qualche modo, è stata enunciata. Quanto agli strumenti per metterla in pratica molto, moltissimo resta da fare. E difatti la Convenzione dovrà affrontare anche il problema - tanto più sentito dopo l'11 settembre - di come riuscire ad avere una politica estera e di difesa europea più coerente, più unitaria, più efficace.
Togliamo subito di mezzo l'dea che questo possa significare una politica estera e di difesa unica: cessioni di sovranità, quando si rischiano vite umane, sono più difficilmente pensabili che nel caso della moneta. Ma gli Stati nazionali europei sanno anche - o meglio dovrebbero sapere, anche se talvolta lo scordano - che per mantenere una capacità di influenza internazionale non possono che combinare le forze. Costruire una politica estera e di difesa comune, quindi, non è una visione idealistica; è l'unica visione realistica possibile.
Come farlo? Potenza civile significa, anzitutto, che l'Unione vede il proprio vantaggio comparato proprio nella gamma di strumenti - economici, diplomatici, militari - a sua disposizione. E che, in secondo luogo, crede in un sistema internazionale fondato, come nel proprio modello di integrazione, sulla forza di istituzioni e di regole comuni.
Questo approccio ha due implicazioni concrete. La prima è che l'Europa deve imparare ad usare in modo coerente le leve economiche, diplomatiche e militari della propria politica estera e di sicurezza. Oggi non è così. Abbiamo da una parte Javier Solana, Alto Rappresentante della PESC nominato dal Consiglio. E abbiamo il Commissario europeo alle relazioni esterne, Chris Patten, che tiene in mano (almeno in parte) la diplomazia economica dell'Unione. Sono due pilastri diversi, intergovernativo l'uno e comunitario l'altro. Sono due persone e due burocrazie diverse. Il rimedio possibile? Cercare di fondere o di armonizzare i due compiti, anche se le cose non sono così semplici: sovranisti e comunitaristi, infatti, hanno visioni opposte su come farlo.
Per rompere l'impasse, va quindi trovata una soluzione creativa: per esempio, portare Mr. PESC nella Commissione, ma con uno status speciale, sempre collegato al Consiglio europeo. Oppure, fare di Solana il presidente del Consiglio dei Ministri degli esteri, ma affiancandogli come vice il Commissario europeo alle relazioni esterne. Come si vede, sono due soluzioni con un significato diverso, per l'equilibrio generale fra le istituzioni europee; ma che permettono entrambe maggiore coerenza nella PESC.
Una seconda scelta sarà indispensabile: abolire, e tanto più in una Unione a 27, quel meccanismo della Presidenza a rotazione (semestrale), che toglie qualunque credibilità all'immagine internazionale dell'Unione: va in questo senso, del resto, anche rapporto ufficiale presentato da Solana al recente Consiglio europeo di Barcellona.
Certo, queste due scelte non saranno sufficienti, se non verranno combinate ad un aumento delle risorse destinate alla politica estera comune (ben oltre l'attuale bilancio annuale della PESC: dieci milioni di euro) e ad una volontà politica unitaria, di cui la presenza europea negli organismi internazionali resterà un importante indicatore.
Fra l'ingresso della Germania nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (cui ha fatto ancora riferimento, come obiettivo possibile, il Cancelliere Schröder) e l'aspirazione ad un seggio europeo, continuerà ad esistere una bella distanza (magari accorciabile con formule attualmente allo studio, come quelle su un "uso europeo" dei seggi non permanenti). Ma prima di riuscire a parlare con una voce sola negli organismi internazionali, l'Europa deve anzitutto riuscire a farlo a Bruxelles.