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Un Telefono per l’Europa

27 February 2002

Fra le oltre 50 domande sul futuro dell’Europa contenute nel testo della Dichiarazione di Laeken, un gruppo abbastanza consistente riguarda il ruolo internazionale dell’Unione e, in particolare, il possibile sviluppo di una politica estera e di difesa piu’ "coerente" ed efficace. Gli eventi degli ultimi mesi, del resto, hanno mostrato che se l’Ue vuole diventare un partner credibile e ascoltato degli Stati Uniti - oltre che essere capace di agire in modo autonomo sulla scena internazionale - deve darsi le risorse e le strutture comuni necessarie.
Il problema della "coerenza" e’, in questo senso, cruciale. E tuttavia sarebbe rischioso porsi l’obiettivo di conseguire in astratto una coerenza perfetta: gia’ all’interno degli Stati membri, del resto, persiste una latente incoerenza fra ministero e ministero, esiste una certa competizione fra servizi e burocrazie, e non mancano le occasioni in cui i governi devono cercare un punto di compromesso fra orientamenti diversi. Negli stessi Stati Uniti, la concorrenza fra Dipartimenti e agenzie fa parte della natura stessa del processo di formazione delle decisioni, soprattutto in politica estera. Nell’Unione Europea la situazione e’ complicata dal fatto che non esiste un Presidente eletto che possa scegliere fra opzioni e linee divergenti e, soprattutto, dal fatto che le risorse e le capacita’ necessarie sono disperse in modo ineguale fra gli Stati membri e all’interno delle stesse istituzioni comunitarie. Da un certo punto di vista, questa e’ una ricchezza: l’azione esterna dell’Europa non si basa essenzialmente sulla componente militare ma tende anzi a privilegiare gli strumenti civili (commercio, aiuti, sanzioni) e diplomatici. In Bosnia, Kosovo, perfino in Afghanistan sono gli europei che si fanno maggiormente carico della costruzione della pace, che e’ compito arduo e di lunga lena. Ma le competenze e le risorse indispensabili a questo fine sono in parte nella sfera della Commissione - soprattutto di Chris Patten – e in parte in quella del Consiglio (ministri degli Esteri, delle Finanze, ora anche degli Interni e della Giustizia). Se e quando si tratta di fare ricorso a mezzi militari, entrano ora in gioco anche i ministri della Difesa e gli Stati Maggiori nazionali - senza contare ovviamente la Nato, con cui l’Unione sta per concludere un accordo di cooperazione militare per la gestione delle crisi.
Ridurre ad unum questa molteplicita’ di attori e interessi appare una missione quasi impossibile, soprattutto se tentata in chiave di pura architettura istituzionale e negoziato intergovernativo. Forse l’esercizio piu’ utile consiste nel cercare di rafforzare fin d’ora quelle strutture e funzioni che possono garantire una maggiore funzionalita’ e un miglior coordinamento dell’azione esterna dell’Unione (cioe’ i Quindici piu’ la Commissione).
Fra queste, spicca sicuramente la figura di Javier Solana, che dal settembre 1999 agisce come Segretario Generale del Consiglio e Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune (‘Monsieur PESC’). Da un anno a questa parte, infatti, Solana viene sempre piu’ identificato - a Skopje come a Ramallah, a Gerusalemme come a Washington – come il portavoce e il rappresentante di un’Europa che a volte stenta invece a presentarsi con un volto unico. Certo, Solana dispone ancora di uno staff minimo e di risorse proprie risibili, ma comincia a costituire la migliore approssimazione possibile al celebre numero di telefono (se non unico, principale) che Henry Kissinger chiedeva invano di avere, trent’anni fa, quando gli si domandava di consultare l’"Europa". Perche’ dunque non rafforzarlo, farne una sorta di brand, di "marchio" comune della politica estera dell’Ue? Cio’ consentirebbe fra l’altro di combinare le preoccupazioni di federalisti e ‘sovranisti’ senza complicare ne’ smantellare il quadro istituzionale dell’Unione attuale.
Piu’ risorse, dunque, per l’Alto Rappresentante: piu’ soldi, ben oltre la miseria di 10 milioni di euro previsti dal bilancio operativo annuale della PESC, e piu’ personale specializzato, se possibile reclutato ad hoc dal Consiglio e non soltanto ‘prestato’ a tempo dai ministeri degli Esteri dei Quindici, anche per superare il dilemma delle ‘doppie’ lealta’. Ma anche piu’ "coerenza" politica da parte degli Stati membri e della stessa Commissione, che dovrebbero fare un passo indietro e lasciare la scena a ‘Monsieur PESC’. Ecco dunque una scelta da fare, e da fare presto: lasciare a Solana la rappresentanza esterna esclusiva dell’Unione (abolendo la presidenza di turno semestrale) e assegnargli il diritto di iniziativa in materia di PESC. E una scelta da valutare: trovare un migliore equilibrio fra l’eguaglianza fra i Quindici (espressa dal vincolo dell’unanimita’ nelle decisioni) e le maggiori capacita’ che alcuni paesi sono in grado di offrire, anche per evitare i "triumvirati" o Direttorii di varia natura e composizione che indeboliscono non poco l’immagine e l’azione esterna dell’Europa.
Quanto alla vexata quaestio dell’eventuale unione personale fra ‘Monsieur PESC’ e il Commissario per le relazioni esterne (cioe’ fra Solana e Patten) sollevata da piu’ parti nell’ultimo anno, sembra una di quelle formule – come la "Federazione di Stati nazionali" – che accontentano un po’ tutti proprio perche’ ciascuno vi puo’ leggere quello che vuole. Ma la traduzione pratica e istituzionale di tale fusione e’ piu’ complicata (e complicante) di quanto non appaia a prima vista, anche perche’ mischierebbe procedure e istituzioni che, finora, sono state tenute rigidamente separate. Perche’ non pensare piuttosto ad un ‘Monsieur PESC’ rafforzato, abilitato a presiedere il Consiglio dei ministri degli Esteri Ue, e affiancato da due vice? Uno di questi resterebbe membro della Commissione, l’altro si occuperebbe di gestione delle crisi e presiederebbe le strutture politico-militari in costruzione.