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Barroso, il presidente politico non s'addice all'Europa
Ora che il polverone della conferma a José Manuel Durao Barroso si è posato, vale forse la pena soffermarsi un attimo su quanto è accaduto. L'esito del voto a Strasburgo non è stato certo un successo per il nuovo Presidente della Commissione, nonostante abbia raccolto qualche decina di voti in più rispetto a quelli previsti o annunciati: 413 Sì contro 251 No e 44 astenuti non rappresentano certo un mandato pieno e indiscusso, un'apertura di credito senza riserve. Appena due giorni prima, il nuovo Presidente del Parlamento Josep Borrell aveva ottenuto un'investitura numericamente più solida, nonostante il suo principale avversario (Barroso non ne aveva) fosse un candidato di tutto rispetto e, anzi, senz'altro più noto e forse perfino più apprezzato. Chiunque abbia a cuore il ruolo della Commissione e ciò che rappresenta nel processo di integrazione europea non può dunque che dolersi del risultato e delle circostanze dello scrutinio.
Per molti aspetti, infatti, i neodeputati europei si sono pronunciati più a favore o contro il passato di Barroso come premier del governo di Lisbona, che a favore o contro il suo futuro come leader dell'esecutivo di Bruxelles. Così, c'è stato chi non ha apprezzato le sue politiche economiche troppo liberiste e rigoriste - la linea di frattura tradizionale fra destra e sinistra - e chi invece soprattutto non ha digerito il suo appoggio (sia pure dalle seconde file) alla guerra in Iraq: una linea di frattura, questa, un po' più complessa, soprattutto a causa della peculiare posizione di Tony Blair e di Jacques Chirac. Eppure, le sfide che Barroso dovrà ora affrontare a Bruxelles hanno poco a che vedere con quelle linee di frattura, ed è anzi un peccato che la sua nomina prima e conferma poi abbiano contribuito a farle riemergere con tanta chiarezza e asprezza. Colpa di molti, dal duo Blair-Berlusconi da un lato a quello Chirac-Schroeder dall'altro, quasi che la scelta del successore di Romano Prodi fosse diventata un'ennesima mossa nell'interminabile disputa intra-europea sul conflitto iracheno.
Ma sarebbe riduttivo ricondurre tutto alle sole vendette politiche e animosità personali post-Iraq. L'infelice scrutinio di giovedì scorso ha radici più lontane, e nasce anche da una serie di equivoci sul ruolo dell'esecutivo di Bruxelles e del suo leader. Fino ad ora, infatti, mai la conferma del Presidente della Commissione era stata tanto controversa. Ci fu, certo, la serie di veti incrociati che nel 1994, al termine del lungo mandato di Jacques Delors, condusse alla nomina di Jacques Santer: prima John Major pose il veto al nome del belga Jean-Luc Dehaene, considerato troppo federalista, poi la coppia franco-tedesco replicò opponendosi all'olandese Ruud Lubbers. Fu il primo vero scontro più o meno pubblico sul vertice della Commissione, ma una volta trovato l'accordo sul lussemburghese Santer il processo di conferma si svolse senza intoppi, anche perché il candidato scelto non si prestava a grandi controversie ideologiche o politiche. Fu allora che proprio Jacques Delors lanciò l'ipotesi che il Presidente della Commissione fosse sottoposto al giudizio degli cittadini: come in un processo politico nazionale, le principali "famiglie" partitiche continentali avrebbero potuto indicare agli elettori il proprio nome per la Commissione, e il più votato sarebbe poi stato nominato dal Consiglio dei capi di Stato e di governo e insediato dal Parlamento. Non era ben chiaro che cosa sarebbe accaduto agli altri capilista, se cioè sarebbero stati cooptati nella stessa Commissione o se sarebbero rimasti in Parlamento come capigruppo o altro: le due varianti avevano, evidentemente, implicazioni molto diverse per la natura dell'intero processo. Ma l'intenzione, ovviamente, era ottima: mettere un po' di pepe sulle elezioni pan-europee per il Parlamento di Strasburgo, altrimenti prive di poste politiche reali e ormai ridotte ad una serie di test di popolarità separati ma simultanei per i governi in carica; favorire un dibattito politico transnazionale e, in prospettiva, la formazione di un vero e proprio demos europeo; e, anche, sottrarre la scelta del Presidente della Commissione ai negoziati segreti e ai veti reciproci fra capi di governo. E fu sempre da allora che cominciò a circolare anche la nozione che il posto dovesse essere dato, appunto, ad un ex premier: Santer in fondo lo era (anche se di un paese piccolissimo), e Prodi lo sarebbe stato. Ma non era certo questa la visione originaria dei "padri fondatori" della Comunità, e in fondo lo stesso Delors, Roy Jenkins o Walter Hallstein - tanto per citare forse i migliori - erano stati ministri ma mai primi ministri.
L'ipotesi di Delors fu subito abbracciata dai federalisti europei, che vi vedevano tutto sommato un modo per far passare la loro visione dell'Unione Europea come "super-Stato" sovra-nazionale e della Commissione come suo "governo". Peccato che le realtà politiche e istituzionali non corrispondessero a questo schema: e neppure il nuovo Trattato Costituzionale che sarà firmato solennemente il prossimo 29 ottobre a Roma, del resto, si muove in tale direzione. E peccato soprattutto che la proposta Delors o non sia stata messa per nulla in atto, o lo sia stata in modo soltanto parziale e perciò, alla fine, distorto. Nei due casi avutisi finora, infatti, Prodi fu scelto in pochi giorni, dai soli capi di Stato e di governo, e del tutto fuori da qualsiasi processo elettorale: a causa delle improvvise dimissioni della Commissione Santer, infatti, l'ex premier italiano fu indicato nel marzo 1999 dal Consiglio Europeo di Berlino, e poi confermato in autunno, ma senza che la sua nomina fosse sottoposta, nel giugno di quell'anno, al giudizio dei cittadini europei. Quanto a Barroso, il suo nome é saltato fuori solo a fine giugno, come terza o quarta scelta, e addirittura dopo che il suo partito era stato severamente sconfitto alle europee del 13: nessuna investitura popolare dunque, anzi. Il solo aspetto che lo collega all'esito delle ultime europee è che appartiene alla "famiglia" del Ppe, risultato ancora una volta il gruppo di maggioranza relativa su scala continentale. Ma lo stesso Ppe si era ben guardato (come d'altronde il Pse) dal condurre la campagna elettorale con un proprio candidato-Presidente: si era limitato a rivendicare il posto per uno dei suoi, minacciando più o meno apertamente di non sostenere un nome proveniente da un'altra "famiglia". Così oggi ci troviamo con un nuovo Presidente uscito battuto dal voto popolare in giugno, indebolito dal voto parlamentare in luglio, e giudicato più per il proprio passato che per il proprio futuro: la divisione politica senza la legittimazione elettorale diretta. E lo stesso, si badi, sarebbe probabilmente accaduto se fosse prevalso il candidato iniziale del duo franco-tedesco, il liberale belga Guy Verhofstadt.
Ma siamo davvero sicuri che la scelta del Presidente della Commissione europea debba essere così partisan ? Attenzione, Strasburgo non è Westminster: il Parlamento europeo è eletto a scrutinio proporzionale (anche nei paesi con una tradizione secolare di maggioritario) ed è chiamato a riflettere tutte le diverse sfumature di opinioni esistenti nel continente, comprese quelle più euroscettiche. Esercita un'importante funzione di scrutinio e controllo sull'attività delle altre istituzioni, grazie soprattutto alle sue prerogative in materia di bilancio, ma non legifera in senso stretto: piuttosto, "co-decide" sulla base di proposte elaborate dalla Commissione e poi varate dal Consiglio. Non ha una maggioranza politica pre-definita, né un'opposizione vera e propria: gli schieramenti tendono a variare a seconda dei temi, e le stesse principali "famiglie" sono attraversate da differenze - ideologiche e/o nazionali - tutt'altro che secondarie. Siamo certi di volervi introdurre forti elementi di competizione e "avversarialità", senza avergli peraltro attribuirgli le funzioni di un vero Parlamento (sovra-)nazionale?
Per parte sua, poi, la Commissione non e' Downing Street e tantomeno l'Eliseo: non governa l'Unione, ma ne amministra alcune politiche e ne suggerisce di nuove. Come recita una vecchia formula, "la Commissione propone, il Consiglio dispone". Essa rappresenta e incarna l'interesse generale europeo, ed è la guardiana dei Trattati: la scelta di chi la dirige non dovrebbe diventare un gioco a somma zero fra campi contrapposti, ma restare un gioco a somma positiva, vantaggioso per tutti. Analogamente, la scelta di chi ne fa parte e con quali competenze non dovrebbe essere soggetta a ricatti e mercanteggiamenti da parte dei governi nazionali, come sta invece accadendo proprio in questi giorni, in parte anche a causa del modo in cui si è arrivati alla scelta e alla conferma di Barroso. Davvero vogliamo fare anche della Commissione un organo partisan ? Perfino negli Stati Uniti, dove si va alle urne anche per lo sceriffo di contea, certe cariche e funzioni sono sottratte al conflitto fra i partiti, ai condizionamenti e alle manipolazioni proprie del processo elettorale. Ciò dovrebbe essere tanto più vero per un organo che, nell'ultimo decennio, ha assunto funzioni regolatrici estremamente delicate e sofisticate, e che dovrebbe pertanto mantenere una sua credibilità politica super partes. Tanto più che gli stessi britannici, sempre pronti a denunciare la Commissione come un collegio di "unelected officials", sono poi gli ultimi a volere che siano davvero eletti.
Speriamo comunque che l'infelice esperienza delle ultime settimane non pregiudichi troppo il cammino della nuova Commissione, alla quale non resta che augurare - malgrado tutto - buon lavoro, a cominciare dalla sua organizzazione interna: i "cento giorni" più importanti per Barroso e la sua squadra saranno infatti probabilmente quelli precedenti, non successivi, alla sua entrata in funzione. E speriamo soprattutto che, la prossima volta, si possa fare decisamente meglio.